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Giovedì 30 gennaio 2025

Come fa freddo. Questa mattina ho un referto da ritirare. Ieri al telefono mi hanno detto che no, non posso mandare un delegato a prenderlo perché il dottore vuole parlarmi. Ho abbozzato un sorriso. Da un po’ di tempo, di fronte all’ignoto, all’incerto e all’inevitabile, la faccia mi prende questo accenno di sorriso involontario e mansueto, una specie di espressione né davvero serena né davvero preoccupata.

Mi siedo in sala d’attesa e mi rendo conto di aver occupato la stessa sedia su cui mi sono seduta due anni fa, il 20 febbraio 2023 (ho sempre, dannazione, sempre questo problema con le date). Allora mi venne messo in mano un referto che parlava di neoplasia mammaria C5 e mi fu spiegato che avevo un cancro, che avevo bisogno di fare chemioterapie pesanti e un intervento, che avrei perso i capelli e che mi aspettava “un percorso importante” – avrei scoperto presto che i medici hanno l’abitudine di chiamare “percorso” quello che i pazienti oncologici chiamano spesso “tunnel” o “calvario”, e i media chiamano banalmente “lotta” o “battaglia”. Io lo avrei chiamato Progetto Kintsugi, che con il tempo è diventato questo blog.

La sedia

Nel momento in cui riprendo la mia sedia, il mio posto di allora, avverto un dolore al petto che non mi aspettavo e una specie di fiato corto, un affanno improvviso. Non è soltanto il ricordo della malattia ancora così recente. Quel giorno di due anni fa, infatti, ero seduta qui, spaesata, e accanto a me c’era mio marito, spaesato. Ci saremmo ufficialmente separati e spaesati due anni dopo, dunque in questi miei giorni presenti, nei quali mi capita di mettere firme in giro: nuovi contratti di lavoro part time, atti di separazione, ritiri di referti medici. E io abbasso gli occhi e firmo, firmo contratti, firmo atti, firmerò consensi informati, con questo flemmatico sorriso addosso.

Questa sedia, perciò, è per me il luogo in cui ha avuto inizio il mio esilio dalla quotidianità che chiamiamo “normale”: routine, certezze, convinzioni, buona salute e appigli facili. Ho imparato a starci, in questo spazio limbico, provvisorio, e ci sto comoda.

In psicoterapia mi è stato detto che l’esperienza della malattia mi ha fatto «percepire con maggiore acutezza la transitorietà dell’esistere». In effetti, potrei quasi affermare che la mia vita presente, pur scompigliata e depauperata come mai prima d’ora, è migliorata da quando ne percepisco con maggiore acutezza la transitorietà. Ci sono dei sì e dei no interiori più chiari, una potenza interna misteriosa che sceglie per me quel che è meglio adesso, in questo momento.

Aspetto

Sono in sala d’attesa, e quindi aspetto.

Come ho scritto alla fine del post precedente, aspettare è quello che un paziente oncologico fa più spesso: aspettare in una sala d’attesa per sottoporsi a un esame o una visita; aspettare un referto, due, tre, dieci; aspettare il parere dei medici; aspettare una risposta; aspettare la data di un intervento chirurgico; aspettare i benefici di una terapia, e i suoi effetti collaterali; aspettare la guarigione; aspettare i controlli successivi alla guarigione. Aspettare che la storia finisca.

Alle 11:36, mentre ancora aspetto, ricevo sul cellulare la notifica di un’email: è la newsletter del Gruppo San Donato, che mi ricorda che il 4 febbraio è la Giornata Mondiale contro il Cancro. Sorrido, e aspetto.

Mi è tornato il cancro.

Me lo dice il medico che mi ha fatto l’ago aspirato due settimane fa. Gli chiedo: che succede se facciamo finta che questo ago aspirato io non lo abbia fatto? Allora lui prende fuoco, scuote le carte che ha in mano e mi dice: «Annalisa, non dica cazzate! Facciamo così: se vuole, la faccio sdraiare adesso qui su questo lettino e gliela faccio io, l’iniezione letale!» (mi chiedo: ma perché… ce l’ha?).

Dunque: in me c’è ancora un po’ di cancro. Non si può ancora dire, infatti, se questo sia un ritorno rissoso, la ricaduta che ogni paziente oncologico guarito teme, la recidiva che io pacificamente aspettavo, oppure un residuo di quello che è stato, un avanzo di galera passato inosservato in sala operatoria poco più di un anno fa. Per stabilirlo, in quella sala operatoria bisognerà tornarci – «con urgenza», c’è scritto nel referto che porto a casa e aggiungerò alla mia gonfia cartella clinica.

Intanto, presto una gita frettolosa a Milano per un nuovo incontro con lui, il mio bel senologo milanese, il mio Gran Maestro russo. Ci saranno nuove chemioterapie, radioterapie? È presto per dirlo. Si aspetta.

Mentre torno a casa, penso: che mostre ci sono a Milano in questo periodo? Chissà se riesco a beccare una di quelle che volevo andare a vedere quest’anno.

Ma questo giorno è fatto per nascere

Nelle prime ore di oggi, 30 gennaio 2025, il mio migliore amico è diventato padre. Sette mesi fa è diventato orfano di madre, malata oncologica anche lei. Lo sento la sera al telefono e, pure nell’ebbrezza confusa di questo momento della sua vita, non dimentica di chiedermi se ho notizia del mio referto. È la prima bugia che gli dico in trent’anni (mi dispiace).

Mi dico: che oggi, almeno oggi, sia un giorno fatto solo per parlare del nascere; parliamo di questo, parliamo del tempo della nascita, di ciò che è vivo e si espande.

[Foto in copertina: Craig Marolf su Unsplash]