
Nuovo giorno 0. Alla vigilia di un’altra chemioterapia
Ero molto giovane quando lessi per la prima volta Ieri, il breve romanzo di Ágota Kristóf pubblicato in Italia nel 1997.
Facevo il liceo, avevo un’amica che di buoni libri ne sapeva più di me e più della scuola. Io andavo al classico, ero figlia di dipendenti statali, traducevo Cicerone, leggevo le sorelle Brontë. Lei frequentava un istituto tecnico, era figlia di operai, il latino se lo imparò senza liceo, leggeva tantissima poesia e ne scriveva di sue. Era la mia amica geniale.
Ci siamo perse, poi ci siamo ritrovate negli anni dell’università – Lettere, tutte e due, in città diverse e lontane. Ci siamo perse di nuovo, ritrovate, infine perse ancora, del tutto. Quelli della nostra adolescenza furono gli ultimi anni di vita delle lettere scritte a mano, affrancate e imbucate: ce ne scrivemmo centinaia. Dentro le sue, chiuse in buste decorate da lei, passavano versi di poetesse che io ancora non conoscevo (Vivian Lamarque, Amelia Rosselli, Marina Cvetaeva, le prime traduzioni italiane di Wisława Szymborska), a volte strappi di pagine fotocopiate o ricopiate a mano da romanzi e racconti.
È stato grazie alla mia amica geniale che ho conosciuto i primi libri di Ágota Kristóf.
Oggi, nel 2025 in Italia, chiunque legga un po’ di libri all’anno conosce la Trilogia della città di K., pubblicata da Einaudi nel 1998. Ma allora non era così. Leggere Ágota Kristóf da adolescente, alla fine degli anni ’90 in Italia, era la rivoluzione.
Ieri tutto era più bello
Il libro di Ágota Kristóf si apre con cinque versi in esergo, privi di punteggiatura. Sono diventati celebri e citati dappertutto:
Ieri tutto era più bello
la musica tra gli alberi
il vento nei miei capelli
e nelle tue mani tese
il sole

Oggi ho ripreso in mano Ieri. Ne ho sentito il bisogno come già altre volte in passato, quando ho cercato le parole per rimpiangere un tempo finito – ho innata attitudine al rimpianto, e chi ha questa attitudine ha pure la capacità di ridipingere il ricordo in modo che sembri più piacevole del tempo presente, che piacevole lo è di rado per chi ha l’umor nero.
Ieri è la storia di Tobias, nato «in un villaggio senza nome, in un paese senza importanza», figlio di madre ladra, mendicante e puttana. In fuga da un passato misero e delittuoso, si spaccia per orfano di guerra, trova asilo in terra straniera con il nuovo nome di Sandor Lester e vive giornate meccaniche: turni di dieci ore di lavoro in una fabbrica di orologi, sbronze, allucinazioni e una frequentazione sciatta con Yolande.
Oggi ricomincio la corsa idiota. Mi alzo alle cinque di mattina, mi lavo, mi faccio la barba, mi preparo un caffè e vado, corro fino alla piazza Principale, salgo sul bus, chiudo gli occhi, e tutto l’orrore della mia vita presente mi salta al collo.
[Ágota Kristóf, Ieri, traduzione di Marco Lodoli, Einaudi 2002, p. 29]
Tobias è fuori di testa, vuole diventare scrittore ma vuole anche morire. Soprattutto, vive nell’attesa di Line, la donna immaginata. Un giorno Line arriva per davvero: è la sua sorellastra, la sua ossessione d’infanzia, tutta la nostalgia di un tempo sognato.
Ágota Kristóf ieri, oggi
Mi chiedo cosa di questo libro mi abbia colpito allora, all’età di sedici, diciassette anni. Suppongo la voce dura della Kristóf, lo stile crudo che l’ha resa nota, quel suo lavoro di sottrazione che scarnifica la scrittura rendendola essenziale, spoglia ed esatta, e perciò in prodigioso equilibrio tra la prosa e la poesia: questo mi ammaliava già da adolescente (malgrado la lettura delle sorelle Brontë).
Per il resto, cosa mi prese allora? Non me lo ricordo. Cosa mi prende, oggi? La mia storia non ha nessun punto di contatto con quella di Tobias, che è una storia di migrazione e sradicamento (come quella della Kristóf), di povertà, di crimine e psicosi. Eppure:
Ieri ho vissuto un istante di felicità inattesa, immotivata. È venuta verso di me attraverso la pioggia e la nebbia, sorrideva, fluttuava al di sopra degli alberi, mi danzava davanti, mi circondava. Io l’ho riconosciuta. Era la felicità d’un tempo remoto, quando il bambino e io eravamo tutt’uno. Io ero lui, avevo solo sei anni e la sera nel giardino sognavo guardando la luna.
[Ágota Kristóf, Ieri, traduzione di Marco Lodoli, Einaudi 2002, p. 47]
Ieri, oggi
La mia amica geniale di allora, quella di cui aspettavo le lettere quando eravamo adolescenti, oggi insegna e scrive libri per bambini. Lei non lo sa, ma io i suoi libri li ho letti tutti e gli albi illustrati che preferisco sono esposti nella mia libreria.
Possiedo ancora il ricordo lucido di una mia lettera indirizzata a lei, in quegli anni. Le scrivevo che io, pur avendo sogni grandi, mi vedevo in realtà vivere da sola, un po’ sfinita, un po’ ammalata.
Penso che nell’adolescenza si possa intravedere uno scorcio di futuro.
Domani inizio le nuove chemioterapie
Carboplatino, gemcitabina, pembrolizumab: due farmaci chemioterapici e uno per l’immunoterapia. Per quanto tempo, questa volta non si sa, manca un programma chiaro: si osserva il Granchio, la sua reazione.
Rileggo alcune cose che ho scritto durante la prima serie di chemio due anni fa, quando era l’incredulità ad abitarmi insieme al cancro annidato nel seno. Ero una paziente disciplinata e fiduciosa, davo le mie braccia agli aghi, mangiavo frutta e verdura, la quinoa con i ceci bolliti e sbucciati. Credevo che, se mi fossi impegnata, avrei aiutato il corpo a guarire.
Credo che presto sarò guarito. Qualcosa si romperà in me o in qualche parte dello spazio. Partirò verse altezze sconosciute. Sulla terra non c’è che la mietitura, l’attesa insopportabile e l’inesprimibile silenzio.
[Ágota Kristóf, Ieri, traduzione di Marco Lodoli, Einaudi 2002, p. 79]
[Immagine in copertina: Fuck with the Stars, Charlee, pin.it/6VQRL6G58]
Una nota per chi dovesse capitare da queste parti facendo ricerche specifiche su Ágota Kristóf: questo post non è una recensione al romanzo Ieri e questo blog non è un blog che parla di libri. Progetto Kintsugi è un progetto di scrittura narrativa sul tema del cancro, e quindi parla di quello che gli pare]