granchio

Venerdì 7 febbraio 2025

Ho preso l’abitudine di vestirmi bene per andare a certi appuntamenti disgraziati con la vita.

Questa mattina indosso addirittura gli stivali coi tacchi e il cappottino color cammello – no, non cammello, è più caramello, mou, dulce de leche. Truccarmi, mi truccherò dopo, una volta arrivata a Milano. Così l’eye-liner sarà fresco come un muro appena ridipinto. Forse metterò anche il rossetto Chanel Rouge Allure 176 che negli ultimi due anni ho messo qualche volta per andare fuori a cena, alle visite mediche, a teatro, alle chemioterapie.

Non voglio avere l’aspetto di una malata di cancro, non ancora, non di nuovo.

I capelli sono ricresciuti folti, sani, riccioluti; iniziano a essere abbastanza lunghi da poter stare raccolti in un cespuglietto disordinato che mi dà un’aria malandrina. Sto bene, sto bene nonostante la vita di traverso. Non è ancora scritto da nessuna parte che ci sono nuove chemioterapie da fare, il mio Gran Maestro russo me lo ha detto: prima i dati, Annalisa. Aspettiamo i dati, quindi. Aspetto.

Sono già stata da lui all’inizio della settimana, lunedì, treno di andata e ritorno in giornata per Milano, Ospedale San Raffaele.
Il mio Gran Maestro muove i suoi pedoni con metodo, non improvvisa, è accorto, irriducibile, soprattutto da quando ha preso una cantonata: per lui, stavolta, quel nodulo rilevato dagli ultimi esami di controllo non era sospetto. Anche i Gran Maestri sbagliano, prendono granchi.

Lunedì scorso il mio Boleslavs’kyj de’ Navigli ha stabilito che tornare in sala operatoria è urgente, sì, ma più urgente per lui è la biopsia cutanea che oggi eseguirà lui stesso.

Sono abitata

Questa biopsia cutanea vuole farla perché il referto dell’ago aspirato ci ha messi in scacco: è tornato un tumoretto al seno già operato, una recidiva, però lui è attirato di più da quel rossore diffuso sulla superficie della mammella. Bisogna prima escludere un tumore della pelle.

Presto anche una tac total body, per dispensare tutto il resto del corpo dagli imprevedibili, cocciuti itinerari del cancro che da due anni mi abita – mi abita malgrado sedici cicli di chemioterapia per vena, malgrado la mastectomia, malgrado quindici cicli di radioterapia e i sei cicli finali di chemioterapia per bocca.

Il cancro si è accasato nel mio corpo e ha disteso le sue gambe.

Il Granchio

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Foto di David Clode su Unsplash

Ho iniziato da poco a leggere un bel saggio di Vittorio Lingiardi, di cui il mese scorso avevo letto il nuovo Corpo, umano (Einaudi, 2024).

Questo si intitola Diagnosi e destino (Einaudi, 2018) ed ecco cosa scrive Lingiardi a pagina 6:

Le parole, si sa, sono abitate da fantasmi. Se cerchiamo le origini dei termini «cancro» o «carcinoma», dal greco καρκίνος e dal latino cancer, cioè granchio, il vecchio Tommaseo ci rimanda a «cànchero», con definizioni di questo tipo: “Tumore o ulcera di pessima condizione, ha colore ordinariamente livido; duole assai, e va rodendo o lentamente o prestamente. È così detto perché suole essere circondato da vene varicose, stese a guisa delle gambe del granchio, che anche dicesi Cancro“. […] Altri dizionari dell’epoca si dimostrano ancora più crudeli: “Genere di grave e dolorosa malattia, in forma di tumore ulcerato e livido, che attacca di preferenza le parti del corpo dotate di senso più squisito, come la lingua, le labbra, gli occhi, le mammelle, ecc. Così denominato, perché suol essere circondato di vene turgide e varicose, che sembrano le gambe e le branchie del granchio, ovvero perché come questo animale è tenace della preda, ed una volta afferrata colle sue branchie mai più l’abbandona”. Non stupisce la fatica di pronunciare la parola «cancro». Le parole evocano immagini e costruiscono le nostre rappresentazioni.

Simbologia del granchio

Come ogni volta che qualcosa mi incuriosisce, mi ritrovo a fare le ricerche che piacciono a me, quelle superflue. Scopro così che nella simbologia cristiana medievale il granchio rappresenta la resurrezione perché, come l’uomo lascia le spoglie mortali per rinascere, il granchio compie la muta e torna a nuova vita.

Nei modi di dire della nostra lingua, prendiamo un granchio quando ci sbagliamo, così come si è sbagliato stavolta il mio Gran Maestro non ritenendo sospetto ciò che invece si è rivelato essere un cànchero (quindi il Gran Maestro ha preso un granchio mentre correva dietro al mio granchio? Abbiamo tutti imboccato un vicolo cieco). In altri ambiti, invece, il granchio rappresenta l’incostanza e l’insicurezza per via della sua caratteristica di camminare sia avanti che indietro.

L’espressione “prendere un granchio” si è estesa a indicare qualsiasi tipo di errore, di abbaglio, aspettativa delusa o valutazione sbagliata – contribuisce l’immagine del pescatore che tira su la rete sperandola piena di pesci e vi trova invece soltanto un granchio.

Comunque la si voglia mettere, tra sbagli, delusioni, incertezze e malattie, mi pare corretto dire che io nella vita, fin qui, ho preso un bel po’ di granchi (com’era nel Vangelo secondo Matteo 4, 18-22? «Io ti farò pescatrice di granchi»?).

Pescare il granchio giusto

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Foto di James Wainscoat su Unsplash

Entro nella stessa stanza dove sono stata lunedì scorso. Il Gran Maestro mi accoglie in un abbraccio. Porto dentro con me mio fratello – questa volta sono venuta in macchina insieme a lui e ai nostri genitori dall’Abruzzo: tutto un viaggio di battibecchi, questioni e panini con la frittata.

Il Gran Maestro esegue la biopsia cutanea con la disinvoltura di un prestigiatore consumato. Dura un attimo, sento poco, adesso il San Raffaele dispone anche di un campione della mia cute – ho già donato sangue, cellule, linfonodi e mammella destra.

Ci vuole un punto: vedo il Gran Maestro armeggiare su di me con filo e pinze. Oltre la sua spalla colgo con la coda dell’occhio lo sbiancamento di mio fratello, che però non sviene come temevo (ha questa brutta abitudine di sentirsi male dentro gli ospedali mentre accade qualcosa ai suoi cari, per esempio in sala parto il giorno in cui è diventato padre, o quando hanno fatto una punturina al figlio). Oggi va tutto liscio, mio fratello non sviene, io sento appena un pizzico, il Gran Maestro è soddisfatto del campione di pelle staccato dal mio corpo.

«Adesso aspettiamo», dice. Aspetto. Se la biopsia va bene, dovremo solo tornare in sala operatoria a riaprire il seno destro per togliere il nuovo cànchero, poi vedremo. Se invece il cànchero con le sue branchie ha afferrato anche la mia pelle, allora inutile operare subito: «Annalisa, bisognerà fare nuove chemioterapie», dice lentamente il mio Gran Maestro mentre mi guarda dritto negli occhi.

«No, – gli dico restituendo la fermezza dello sguardo, – questa volta no». È già da un po’ che ci penso: a me non serve una vita lunga, mi serve una vita buona. Lui sospira, è stanco. Dice che ne riparleremo presto, appena avremo tutti i dati. Mi abbraccia di nuovo, forte, e poi mi lascia andare.

È notte quando arrivo a casa col cerotto insanguinato. Mi strucco gli occhi – alla fine, a Milano, il rossetto non l’ho messo. Domani voglio fare cose normali: lavorare, dormire, leggere, andare al cinema, fare l’amore, aspettare la domenica.


[Fonti sul modo di dire "prendere un granchio": Accademia della Crusca - UPAG Una Parola Al Giorno - Fonti sulla simbologia cristiana del granchio: L'Angolo di Hermes]