
Domenica 6 aprile 2025. Giorno 28.
Alla vigilia del secondo “richiamino”.
Lunedì 31 marzo ho iniziato il secondo ciclo della terapia, con tutta la trilogia: carboplatino, gemcitabina e pembrolizumab. Per domani è in programma il richiamino. Ma prima il prelievo: quanti sono i miei globuli bianchi? Pochissimi questa settimana, i valori del sangue hanno sbandierato lo stato di neutropenia: in queste condizioni, non avevo più i numeri per proseguire la chemio. Occorreva dunque reclutare nuovi globuli bianchi, in fretta.
Ci è voluta la temuta iniezione di Nivestim. L’altra volta, due anni fa, era il Pelgraz, ma l’obiettivo è sempre lo stesso: stimolare il midollo osseo a produrre i globuli bianchi che servono. E diavolo, quanti ne servono.
Un dolore acuto e preciso
Queste iniezioni, di solito, fanno quello che devono fare: i globuli bianchi risalgono, il paziente può proseguire con la chemio che li falcerà nuovamente, e così via, fino al limite.
Ci sono effetti collaterali, è chiaro, che vanno accettati.
Per me, anche stavolta come due anni fa, ce n’è uno in particolare da reggere ed è il dolore acuto e preciso poco al di sotto del bacino, lì, in un punto esatto: alla fine della colonna vertebrale, giù, dentro il canale dell’osso dove sta il midollo.
Non è un comune mal di schiena, non si modifica d’intensità a seconda della postura, non s’allevia cambiando posizione né eseguendo movimenti più attenti. È uno stato di sudditanza corporea al dolore.
La sequenza è semplice ed è questa: curi il cancro con la chemioterapia, che provoca neutropenia; curi allora la neutropenia con il filgrastim, ma il filgrastim provoca dolore all’osso sacro. Ti resta la tachipirina o il brufen, poi la speranza di dormire molto.
Fino al midollo, come si dice
È così che lo immagino: il midollo osseo, pompato di filgrastim, diventa luogo di fatica e travaglio. Quello che io sento è il suo fragoroso operare. Il dolore sale a montate, come latte o marea in un condotto: ne avverto una specie di ribollire dentro un tubo, di gonfiarsi e ritrarsi, ondata e risacca.
Inizia il venerdì sera, dopo circa cinque, sei ore dalla prima iniezione – ne sono previste due. Rimango immobile quando arriva, e respiro. Ogni ondata dura pochi secondi, tra l’una e l’altra c’è lo spazio per riprendere fiato. Riconosco uno schema, mi viene da pensare alle contrazioni delle partorienti, a come le raccontano. Va avanti così per tutta la notte.
Mi metto a pensare ai modi di dire con la parola «midollo». Nel linguaggio figurato, leggo, il midollo indica la parte più intima e profonda dell’animo, e quindi: marcio fino al midollo, fradicio fino al midollo, succhiare il midollo, ma poi ci sono anche essere senza midollo, essere uno smidollato (in questo caso con riferimento, credo, al midollo spinale, che è un’altra cosa). Di ora in ora lungo la notte, imparo a separarmi dall’esperienza mentale del dolore, gli cedo il corpo soltanto, fino al midollo.
«Fottuta fino al midollo», mi dico, mentre giro per casa alle tre del mattino, mi aggrappo al bancone della cucina per reggere un’altra scarica. La tachipirina l’ho bevuta come un’aranciata, tra qualche ora tenterò il brufen.
Sono le sei quando mi affaccio sul balcone, viva e sudata. Vedo la striscia di mare oltre i tetti delle case, sento gli uccelli sugli alberi e mi viene in mente Etty Hillesum:
C’è sole su quel tetto e un tripudio di voci di uccelli, questa camera è già così raccolta intorno a me che ci potrei pregare.
Etty Hillesum, Diario
[Immagine in copertina: midollo osseo umano al microscopio, foto di Ivan Mattioli, Getty Images]