
Furono giorni di sole generoso e largo, di scoperte e gioventù spensierata, quella Pasqua a Köln.
Aprile 2011, la mia unica volta in Germania: è stata per andare a trovare la mia amica Anne. L’avevo conosciuta un paio di anni prima a Roma, dove lei si trovava di passaggio per imparare l’italiano e io, con mire di radicamento, per imparare a insegnarlo agli stranieri. Per qualche settimana condividemmo una stanza al Pigneto e il tram 19 tutte le mattine da Prenestina per raggiungere il Nomentano: dalle parti di Piazza Bologna c’era la scuola che ci unì (e che oggi non c’è più; quasi quarant’anni, è durata).
Anne aveva ventitré, ventiquattro anni, un’identità già definita e un’autonomia di pensiero che a tanti di noi italiani della sua età mancava. Viaggiava molto per l’Europa, ai miei occhi era l’ultima rappresentante del Grand Tour settecentesco e andava riscrivendo il suo personale Viaggio in Italia. Studiava per diventare una cantante lirica professionista, l’italiano le serviva anche per questo; si esercitava tutti i giorni, aveva disciplina e un sogno.
Io di anni ne avevo una trentina, vivevo docilmente pestata dai talloni callosi del precariato di quell’epoca molto specifica, molto storica: la mia gente in Italia si ammazzava più spesso del solito, la rivista Doppiozero stava per nascere in rete e iniziare a pubblicare lo speciale Dolce attesa, che raccoglieva i diari tragicomici dei miei coetanei in attesa di qualche lavoro. I quotidiani parlavano del salario minimo e del sussidio per i co.co.pro., si respirava un’aria cattiva tutta allarmi, fervori, promesse, decisioni. Speranze deluse che avvilivano, o incarognivano. Da noi, a seguire la propria strada si faticava, si abbandonavano convicimenti e percorsi, veniva voglia di dare le dimissioni – da noi perfino Ratzinger, nel 2013, avrebbe pensato: «E allora andatevene tutti affanculo» (ma, certo, lo avrebbe detto meglio).
Ci acchiappammo, io e Anne. Fu una perdita quando partì per tornare a casa in Germania. Ma venne di nuovo a Roma a trovarmi l’anno dopo – io avevo già iniziato a cambiare case, quartieri, scuole, contratti di lavoro, amori. Rimase da me pochi giorni, le cucinai i risotti che le piacevano tanto, andammo a una Tosca al Teatro dell’Opera. Era aprile 2010, sempre aprile, sempre Pasqua.
Pasqua a Köln
Quando mi invitò a passare la Pasqua da lei a Köln, nel 2011, Anne abitava in un minuscolo monolocale, frequentava con incredibile impegno la Musikhochschule e si pagava l’affitto lavorando part time in un centro per anziani. Nel monolocale c’erano soprattutto lei e il suo pianoforte Bechstein, il resto era l’essenziale: un piccolo letto, un piccolo armadio, un piccolo divano, una piccola cucina, un piccolo tavolo, un piccolissimo bagno. Io mi accampai sul piccolo divano.
Che giorni furono.
Anne mi portò con sé dappertutto, anche alle sue lezioni di canto e musica all’università. Conobbi i suoi compagni di studio, andai a pranzo con uno dei professori e mangiai per la prima volta certi grossi asparagi bianchi conditi con una salsa all’uovo fatta in casa – in quei giorni di aprile a Köln si vendevano e mangiavano ovunque questi asparagi bianchi, sembrava una specie di ossessione. Spargel, si chiamano, crescono tra il Baden Wuttemberg, la Baviera e la Sassonia, e segnano l’inizio della primavera come da noi le fave di maggio. Io, comunque, andavo avanti soprattutto a brezel e burro.
Venne una sua amica ad aiutarci a trapanare una parete del monolocale per appendere un grosso specchio che secondo Anne doveva stare al di sopra del pianoforte, per osservarsi mentre cantava – cantava, cantava sempre, tutti i giorni: prima vocalizzi e curiosi esercizi di riscaldamento, poi apriva gli spartiti e provava per almeno un’ora. Io, sdraiata sul piccolo divano, ascoltavo a occhi chiusi, oppure leggevo. Aiutammo l’amica a fare un trasloco, anche lei in un monolocale, pochi mobili e tanti spartiti.
Vivevamo così, in un tempo sospeso fatto di musica, asparagi bianchi e spontanee alleanze. Era un tempo in cui ognuna di noi poteva ancora essere tutto.
Non mancarono le tre attività più care ad Anne: i concerti, i musei e le passeggiate tra i boschi lungo il fiume. Mi portò alla Kölner Philharmonie per una Passione secondo Matteo di Bach, che non conoscevo, mi portò a Bonn ad assistere a una Rusalka di Dvořák, che non conoscevo. Mi portò al museo Ludwig e lì vidi per la prima volta dal vivo il Caffè greco di Guttuso, che conoscevo solo dai libri.


Ma la cosa più bella che Anne fece per me in quei giorni fu preparare la colazione di Pasqua.
Un paio di giorni prima andammo nel bosco a raccogliere rami, perché lei voleva addobbarli con gusci d’uovo dipinti e farne una composizione per decorare il suo monolocale, nel quale riusciva sempre a far emergere qualche nuovo spazio disponibile. Le piaceva creare le cose da sola, con materiali naturali e di recupero, cercando di comprare il meno possibile.
Invitò nel monolocale le amiche del corso di canto, quelle che riuscirono a entrarci. Iniziò a cucinare con zelo dal giorno prima e la mattina della domenica di Pasqua sul tavolo allungato c’erano piatti dolci e salati, tutti fatti in casa. Iniziammo il banchetto verso le nove e andammo avanti fino all’ora di pranzo, tra musica e chiacchiere sospese fra l’italiano e il tedesco.
Io non avevo mai fatto una colazione di Pasqua.

Nelle mie ultime quattordici Pasque ho pensato spesso a quella passata con Anne a Köln, ma mai così intensamente come mi capita in questi giorni.
In questo secondo tempo di malattia, mi succede di allestire uno spazio nella mente per certi ricordi, persone, esperienze che mi hanno formato. Sono frammenti che si presentano alla soglia della mia memoria senza invito, compaiono e chiedono di accomodarsi adesso. Così è accaduto di recente con il ricordo della mia amica geniale, un’altra, che mi iniziò ai libri di Ágota Kristóf, della quale il mese scorso, alla vigilia delle nuove chemioterapie, ho voluto rileggere Ieri.
Ho avuto più di una volta questa fortuna, penso ora: di incontrare personalità talentuose negli anni della loro formazione ed esserne amica, frequentarle nel momento in cui iniziavano a diventare quello che erano e assistere al miracolo della nascita artistica. Ne studiavo la perseveranza di cui io mi andavo già scoprendo sprovvista; ne ammiravo, più che il talento di per sé, il coraggio e la pazienza di nutrirlo.
Quest’anno, per Pasqua, voglio fare come a Köln.
L’ho avvertito con chiarezza un giorno, dopo il Pembrolizumab. Da Tedi poi ci sono andata. Ho comprato un coniglio di stoffa che ho alloggiato sul pianerottolo accanto alla mia porta, un altro di legno che ho messo sul tavolo, strambi tovaglioli di carta con disegni di pulcini e una tovaglietta di cotone verde che voglio regalare a mio nipote Gioele: la domenica di Pasqua preparerò la colazione per la mia famiglia, a casa mia, la mia nuova ultima casa. Ai rami e ai gusci d’uovo dipinti a mano, ci ha già pensato mia madre, che penserà anche a buona parte del cibo – io mi stanco con una frittata.
Non ho mai fatto Pasqua in nessuna casa di cui mi sono presa cura: né colazioni caserecce, né uova dipinte, né pupazzi a forma di coniglio.
Lunedì scorso ho fatto il “richiamino” del secondo ciclo: carboplatino e gemcitabina. Mi è venuto da piangere in silenzio davanti all’infermiera mentre mi cercava la vena, perché io alla chemio non ci voglio andare. Mi aspettano adesso ben tre settimane di riposo prima di iniziare il terzo ciclo, una in più rispetto allo schema – il corpo è sfinito e i globuli si devono ripopolare, che sia resurrezione pure per loro. I farmaci del terzo ciclo passeranno attraverso il Port che mi impianteranno nel petto pochi, pochissimi giorni prima di Pasqua.
Anne Heffner
Anne oggi è una cantante lirica professionista, tiene concerti e insegna canto in Svizzera.
[Per pubblicare questo pezzo, un po' insolito e più ingenuo rispetto a quelli di progettokintsugi.it, e per usare alcune foto private di quel viaggio a Köln, ho chiesto il permesso ad Anne, che ha detto sì - e ha precisato che quel vecchio pianoforte Bechstein ce l'ha ancora]