omen

«Questa è la casa dove vengo a morire». Me lo sono detta quando ho traslocato, a novembre. Non so perché l’ho pensato – non posso dire in effetti di averlo pensato: l’ho piuttosto avvertito, come un cattivo odore in una stanza trascurata. Sono passati quasi quattro mesi e quell’odore non se n’è andato.

Questa casa

Questa casa mi sembra un buon posto per un epilogo in sordina, l’ultima di tutte le case in cui ho abitato da una ventina d’anni a questa parte, la prima in cui abito da sola: un attico di 75 mq, due camere, un soggiorno a elle con un angolo cottura rétro, un bagno piuttosto grande con una doccia molto piccola e scomoda. È un appartamento né bello né brutto, in un palazzo costruito una decina d’anni fa in una delle vie periferiche del paese, proprio davanti alla ferrovia, su una stradicciola tutta buche e sassi che attraversa uno scampolo di terre coltivate, prima di arrivare al mare. Del mare vedo una striscia all’orizzonte, oltre i tetti della case. È una striscia di colore turchese quando è bel tempo, livida quando minaccia pioggia. Ho una vicina di casa anziana, sorridente e sorda che mi saluta dal suo al mio balcone con un cenno della mano.

In questa casa ci sono entrata col muso lungo e la testa bassa, lasciavo una casa che avevo amato tanto e dov’ero stata bene.

Ho subito avuto in antipatia il pavimento, fatto di piastrelle in gres porcellanato effetto marmo lappato, che fanno freddo e che mi ricordano la mia adolescenza negli anni ’90. Però ho finora investito denaro, tempo ed energie per arredare e vivificare tutto l’appartamento, a cominciare dal soggiorno (ma chi te lo fa fare, ché sei in affitto?): carta da parati con grandi fiori gialli e foglie verdi, colori in tinta alle pareti, alcuni mobili nuovi combinati con quelli che ho portato con me dalla casa precedente – la casa della mia vita di prima: una ventina di metri quadrati in più, tre camere e due bagni, un garage, un bel po’ di terrazzo. Ma prima eravamo una donna, un uomo, due gatti al posto dei figli che non abbiamo voluto.

Mancano ancora dei tappeti per scaldare la freddezza del pavimento, la giusta illuminazione, uno specchio all’ingresso, il ripostiglio dietro la porta da schermare, qualche altro accorgimento (ma chi te lo fa fare, ché sei in affitto e pure di nuovo malata?). Sarà completa verso l’estate, credo. Già me lo vedo, questo attico d’estate, luminoso, tutto giallo e verde, ambizioso senza talento. Magari metto anche la zanzariera in soggiorno.

ADELE / Art. fiori inglesi-Sunlight
Carta da parati Agena, Botanee. Fonte immagine: agenagroup.it

Questa è la casa in cui si compie l’ultima resistenza

È una casa che si sforza di essere viva e accogliente, di avere uno stile riconoscibile, di assomigliarmi nonostante le sue risorse strutturali glielo rendano difficile.

Mi pare una buona metafora di questo momento: mi impegno ad avere giornate normali nonostante la nuova diagnosi si adoperi per rendermele problematiche. Sto al mondo con piglio, pur sgradita alla vita. Così mi sento adesso: sgradita alla vita, come un ospite indesiderato. Qua non sono voluta.

Il Granchio mi percorre. Io lavoro, dormo, mangio, mi lavo, leggo, scrivo, spolvero, riscaldo una minestra, guido la macchina, e mi chiedo: chissà dov’è in questo momento, di preciso. Sarà lui, questo solletico sotto l’ascella?

Insight

Adesso che ho una nuova diagnosi, il ritorno della malattia, ho ripensato a quella specie di presagio che ho avuto quando sono venuta ad abitare qui. In psichiatria è chiamato Insight e indica il grado di consapevolezza di malattia, l’intuizione dei propri sentimenti, delle proprie emozioni e dei moventi del proprio comportamento.

Dev’essere per questo, forse, che in questi giorni mi sono messa a fare una serie di cose che percepisco urgenti: ho nominato mio fratello beneficiario del mio fondo pensionistico (in caso di mia “premorienza“); ho iniziato a bruciare alcuni diari e quaderni degli ultimi anni; ho cominciato a studiare meglio le informazioni sulle DAT (Disposizioni Anticipate di Trattamento). Ho ripreso a redigere il testamento olografo che avevo lasciato in sospeso al primo giro di cancro – non possiedo nulla tranne i libri e questi devono andare a quante più persone possibili, perciò ho pensato di donarli a una biblioteca. Ho scritto a mio marito che, se stavolta non ce la faccio a guarire, voglio che sappia che sono grata alla vita per gli anni passati con lui (ci siamo trovati d’accordo sul fatto che per tanto tempo siamo stati bene insieme e abbiamo fatto un bella vita. Davvero una bella vita).

C’è una cosa di cui non mi sono ancora curata, ed è per me la più importante. Riguarda il mio scrivere, tutto questo disordinato scrivere da una quindicina d’anni, un vizio che non mi passa, una scrittura che non cresce e non crepa, senza metodo né programma. Rimando, e nel mio rimandare c’è l’attaccamento alla vita normale, quello di chi dice “domani“.

Cerco nei libri le voci più care

Susan Sontag, Virginia Woolf, Pia Pera hanno scritto di malattia, malate. Mi metto sulle loro tracce, ne ripercorro il cammino, trovo conforto nella lucentezza della loro scrittura, me le sistemo sul comodino la sera; sono tre presenze forti nella mia nuova, ultima casa. Mi fanno compagnia.

Sontag si arrabbia fino alla fine con il potere subdolo delle metafore sulla malattia, Woolf si riempie le tasche di sassi e s’inabissa nel fiume Ouse, Pia Pera va a morire in pace nel suo giardino. Le penso spesso.

Io adesso come mi comporto?

Che ne faccio di quello che sono, e del poco che ho? Non trovo nulla, nessuna ispirazione, nessun insegnamento nell’esperienza della ricaduta. Ricado e basta, dopo appena nove mesi dall’assunzione dell’ultimo farmaco chemioterapico.

Diversa, stavolta, è la mia attitudine alla malattia: nessuno stupore. Il quadro della mia storia mi appare sensato, pressoché completo, ultimato. Ha tinte dal verde muschio al giallo ocra, un soggiorno a elle con un angolo cottura rétro, un bagno piuttosto grande con una doccia molto piccola e scomoda, un pavimento freddo che m’intristisce. Dentro questo spazio ci sono io in vestaglia, arruffata, che fumo una sigaretta, affacciata alla finestra alle cinque del mattino. Potrebbe essere un Hopper.

Ma intanto, oggi è giorno di TAC con mezzo di contrasto. Sono a digiuno da stamane e, dopo la TAC, vado dall’ospedale al lavoro. Cerco giornate normali, come se questa faccenda non mi riguardasse.