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20 febbraio 2025, un giorno normale

Prima di prendermi l’influenza, l’altro ieri, ho fatto in tempo a passare in erboristeria a comprare le mie tisane preferite, quella balsamica (menta, pino, timo, piantaggine, echinacea, rosa canina) e quella sgonfiante (finocchio, menta, liquirizia, verbena, tarassaco).

Sono andata anche in pasticceria a prendere qualche biscotto, perché sentivo la tristezza che mi si andava apparecchiando come un temporale. A casa ho fatto i suffumigi per il raffreddore con le erbe e gli oli essenziali, ho pagato una bolletta online, mi sono preparata una cioccolata calda e me ne sono andata a letto.

Dopo tanti anni di partita IVA, non so come comportarmi per un paio di giorni di influenza: mi sembra incredibile che mi vengano pagati. A gennaio, più o meno negli stessi giorni in cui facevo i controlli medici, ho iniziato questo impiego part time in un posto allegro che mi piace molto e che ha qualcosa a che fare con me. Lo affianco alla mia partita IVA che da un paio di anni è rimasta incagliata tra chemioterapie, soggiorni in ospedale, calo delle energie, della motivazione e della serenità.

Fatturo poco ormai e non mi va di fare di più, perciò ho trovato una quadra nella varietà: adesso ho due lavori, due mezze giornate, due identità, sono simultaneamente una libera professionista a casa e una dipendente in un ufficio. Ho dunque per la prima volta tra le mani un certificato di malattia da lavoratrice dipendente, sopra c’è scritto il mio nome, lo esibisco con un che di disagio: ma davvero oggi mi pagano anche se sto a letto con la febbre a starnutire, tossire e colare moccio?

La tristezza, dicevo, che mi s’apparecchia.

Perciò, finito il mio turno di lavoro part time, la cioccolata calda e i biscotti della pasticceria, quelli di frolla, sono la merenda consolatoria prima di tumularmi sotto il piumone alle sette di sera insieme alla febbre e alla tristezza. Mi viene il sorriso amaro a pensare che il mio primo certificato di malattia è per una ridicola influenza stagionale e mi chiedo come funzionerà dopo, più avanti, quando mi assenterò a causa di quest’altra malattia, il Granchio, che mi abita tenacemente e ha ripreso a colonizzarmi.

Che peccato, mi dico, che la diagnosi di recidiva sia arrivata proprio adesso, adesso che ho iniziato questo nuovo lavoro, ho una busta paga, una routine fuori casa, il pilates del martedì e giovedì mattina presto, il soggiorno con la carta da parati che mi piace, adesso che ho quasi una vita normale, dopo due anni in cui mi sono giocata la salute, il marito, i gatti e la pace.

I referti della biopsia cutanea e della TAC non sono ancora arrivati. Ho chiamato ogni giorno la segretaria del mio Gran Maestro, come lui stesso mi ha detto di fare, ma niente: bisogna aspettare. E io aspetto. Aspetto i referti e rispondo ai messaggi di chi mi chiede se ho avuto i referti, se ci sono novità, se ho voglia di un aperitivo, di un caffè, di una pizza, di una cena fuori.

Per la verità, ho più voglia di fare un viaggio da sola.

Partire senza sapere nulla dei referti, se il Granchio si è riaccasato soltanto nel seno – questo è già certo, – o se invece con le sue pinze abbia già attanagliato qualche altro organo (la pelle, teme il mio Gran Maestro).

Partire malata e fuori dai protocolli, fuori da ogni grazia: terapie, interventi chirurgici, niente, partire senza cure, incurata, noncurante.

Una settimana, una decina di giorni a Parigi.

Ci sono stata una volta soltanto, nel 2008, per tre o quattro giorni insieme a un caro amico più grande e innamorato di me – io ero giovane e della gioventù non sapevo che farmene. A Parigi ci sono dei posti che l’anno scorso ho segnato su un’agenda. Sono tutti posti di scarso interesse turistico che voglio vedere: piccole librerie, caffè, antiche pasticcerie, biblioteche, mercatini e vecchie mercerie.

Dovevamo andarci insieme in primavera, io e mio marito, poi lui ha detto “Ma dove cazzo andiamo, ché qua siamo messi male?”, io volevo dire “Ma tesoro mio, andiamo proprio perché siamo messi male”. Sarebbe stato l’ultimo viaggio insieme, sì, ma con che classe, che stile – lasciarsi un giorno a Parigi.

Allora ci vado da sola, penso, senza la compagnia di altre persone, io e il Granchio che ormai siamo tutt’uno, io e lui sì che siamo una cosa sola. E i referti? Je m’en fous. Ma non lo diciamo a nessuno, forse solo alla mia nuova datrice di lavoro – mi prendo la malattia e pure le ferie, le dico, mi assento, diserto, manco.

E poi, se vengo a mancare proprio a Parigi come una grigia eroina romantica: che classe, che stile.

[Credits: la foto in copertina viene da dupainetdesidees.com. Du Pain et des Idées è un antico forno di Parigi, si trova al 34 di rue Yves Toudic ed è uno dei posti segnati sulla mia agenda l'anno scorso]