
Lunedì 10 marzo 2025. Ciclo 1, giorno 1.
Pembrolizumab 200 mg (1-21), gemcitabina 1700 mg, carboplatino 200 mg (1, 8-21). A corredo: antistaminici, antiemetici, gastroprotettori e corticosteroidi (Trimeton, Akinzeo, Pantorc, Soldesam).
Non pensavo di tornare così presto in questo reparto. Non pensavo di ripetere, a nemmeno un anno di distanza dall’ultima terapia, i gesti, i riti, tutte le liturgie della cura: dichiàrati all’arrivo, attendi il tuo turno (pazientemente), fai la visita, ricevi “la lettera”, vai in stanza e prendi posto, attendi le infermiere gentili che arrivano con il vassoio dei tuoi farmaci e fai la verifica delle generalità: Di Salvatore Annalisa? Sono io. Nata il? 2 settembre 1981. Si comincia.
Quest’anno, però, c’è una novità in reparto.
Me l’aveva anticipata Mara, la mia amica veterana di chemioterapie con cui oggi il Caso mi farà ritrovare a spartirmi la stanza, oltre che la sorte. Quest’anno ci danno il panino. Panino nominativo: sull’incarto è scritto a mano con un pennarello blu il nome del paziente cui è destinato.
Verso le dieci e mezza, quindi, mi portano un succo alla pera e il panino che mi hanno fatto scegliere lo scorso venerdì al prelievo di routine: io l’ho ordinato con le verdure. Ricevo una rosetta farcita di cavolfiore bollito. Mi sta bene, l’alternativa è il panino con il parmigiano che prenderò la prossima volta, altrimenti restano tre varianti a base di carne: fettina di manzo, petto di pollo, hamburger.
Da questi due anni di esperienza ho imparato che oncologi e nutrizionisti non si parlano, o si parlano poco. Dev’essere per questo mancato dialogo, mi dico, che nel menu di un reparto di oncologia compaiono tre proposte di carne, di cui due di carne rossa, che anche un nutrizionista sprovvisto di specializzazioni oncologiche bandirebbe dal regime alimentare di qualunque paziente in trattamento chemioterapico. Ma così tanti sono gli alimenti esclusi o sconsigliati dalle più virtuose diete per noi tumorati (carni rosse e insaccati, lieviti, zuccheri, soia, cibi pronti, …), che non sarà un boccone di carne ogni tanto ad ammazzarci. Io, comunque, ho smesso di mangiare carne nel 2023. Quindi, oggi panino con il cavolfiore. Però dolci e alcolici, a quelli avrò bisogno di ricorrere qualche volta, oppure ammazzatemi adesso e non ne parliamo più.
Quando la gemcitabina inizia a scorrermi in vena, il braccio comincia a bruciarmi.
È previsto. L’infermiera gentile rallenta la velocità di infusione, ma di poco, perché la gemcitabina va iniettata nell’arco di trenta minuti. È per questo, anche per questo dolore, che stavolta la mia oncologa mi ha invitato a valutare l’uso del Port. Due anni fa, ho usato per qualche mese il PICC, il catetere venoso centrale che si impianta nel braccio, in vena succlavia, ma questo ha finito per attorcigliarsi in un loop e farmi rischiare una trombosi, perciò via, me lo hanno tolto e hanno proseguito le somministrazioni bucando dove s’offriva la vista di una vena buona da consumare. Stavolta sì, bisognerà pensare al Port, anche a questo bisognerà pensare. Mettere in agenda: andare in sala operatoria a farsi incidere sul petto una piccola, comoda tasca. Mara dice che il Port è una svolta.
Al cospetto del carboplatino, infine, mi addormento.
Metto in fila tutti i miei sogni ricorrenti degli ultimi vent’anni, più il nuovo arrivato, quello che ho iniziato a fare soltanto di recente: volo. Volo sopra le cose, le persone, gli animali, ma solo a pochi metri di distanza dal suolo, quelli necessari a schivare le zampate di leonesse e leoni, decine e decine di predatori felini che spiccano balzi in aria, verso di me, in attesa della mia caduta. Io sono del tutto inconsapevole del mio volo, e di tanto in tanto perdo quota e controllo, avvicinandomi pericolosamente alla distesa ben visibile di canini, molari, artigli: non so né per quanto durerò, né come fermarmi per riparare su un albero, un tetto, un’altura. Levito e basta, sto lì sospesa a mezz’aria, e avanzo lentamente fra terrore e stupore. È un sogno che assomiglia alla Natura dell’operetta morale di Leopardi: «di volto mezzo tra bello e terribile».
«Tutta roba buona», farfuglio all’infermiera gentile che viene a svegliarmi alla fine della terapia. Torno a casa e mi rimetto a dormire. Dormo l’intero pomeriggio fino alla sera, per cena mangio pane Senatore Cappelli tostato (perché la tostatura elimina i lieviti, dice) e verdure cotte (carote, zucchine, finocchi), bevo una tisana depurativa, mi viene la febbre preventivamente annunciata al mattino dall’oncologa, mi rimetto a dormire, non so più che ora è.
Martedì 11 marzo 2025. Giorno 2
Oggi pomeriggio vado a lavoro, il mio nuovo part time d’ufficio – l’altra mezza giornata di partita iva, quella me la gioco secondo come mi sento, giorno per giorno. Ho ancora qualche decimo di febbre, un lieve senso di nausea, ma pure il bisogno di normalità, il desiderio profondo di un affaccendarmi sostenibile, in mezzo alla vita che scorre fuori.
Vado, e andare mi fa bene, perché faccio quello che c’è da fare alla mia scrivania, perché vedo «le ragazze» – Simona, Edvige, Vanessa, Yuliya, – perché mi piace inforcare gli occhiali e mettermi a programmare le lezioni degli studenti, arrabbiarmi quando le saltano, incalzarli su WhatsApp, assicurarmi che abbiano svolto tutte le attività previste prima del test. Non so perché, è un tipo di lavoro che mi ricorda quando insegnavo italiano agli studenti universitari Erasmus a Roma: impegnatevi, datevi da fare, avete tempo.
Però oggi mi sento ancora debole, molto.
A pranzo ho mangiato crema di riso e altre verdure cotte, una banana. Ho bisogno di energia veloce e dunque mi caccio in bocca una barretta di cioccolato al latte, non del tutto libera dal senso di colpa.
Durante le terapie della mia prima volta, non avevo mai vomitato. Ed è perciò con meraviglia che mi vedo e mi sento alzarmi dalla mia scrivania di scatto, rapida ma controllata, e attraversare il corridoio con una corsetta leggera, agile e disinvolta, mezzo sorriso pronto per eventuali incontri lungo il tragitto che mi separa dal bagno.
Sollevo la tavoletta del water e ci svuoto tutto, credo: il pembrolizumab, la gemcitabina, il carboplatino, forse qualche resto di cavolfiore bollito del giorno prima, e sicuramente, sicuramente la barretta di cioccolato al latte. Va bene, sto meglio adesso. Soltanto Edvige se n’è accorta e m’è venuta dietro, il resto della scuola è l’alveare operoso che dev’essere. Tutto a posto, le dico. Mi lavo la bocca, spruzzo un po’ di disinfettante nel water, torno alla mia scrivania e mi rimetto a lavorare libera, pulita. Cinque minuti in tutto, non di più.
Rientro a casa alle nove di sera, ho poco appetito e mangio solo molta bietola. Prendo il cortisone, Varcodes 2 mg, e mi preparo alla prima delle mie ritrovate notti senza sonno.
Chemio sì, ma con molta cura
Grazie al suggerimento di Agnese G., una lettrice del mio blog che mi ha scritto un’e-mail rispondendo al mio invito ad arricchire la lista del mio personale laboratorio di riferimenti, ho iniziato a leggere il diario di Severino Cesari: Con molta cura. La vita, l’amore e la chemioterapia a km zero. Un diario 2015-2017 (Einaudi, 2021).
Severino Cesari è stato editor, giornalista e scrittore, ed è la persona che insieme a Paolo Repetti ha fondato la collana Stile Libero di Einaudi.
Ho scelto questa lettura come compagna della mia nuova chemioterapia. È un diario fitto di oltre 500 pagine e io non riesco più a leggere per molte ore, quindi staremo insieme per un po’, io credo per almeno tre, quattro cicli – che poi è il periodo di tempo finora programmato per le cure, perché «dopo vediamo». Stavolta non vediamo troppo oltre.
Ieri in reparto, poco prima di addormentarmi durante la terapia, ho sottolineato questo passo che ho trovato a pagina 16:
Ma oggi stamattina in questo momento viene un’altra cosa, adesso. Una forza tranquilla, una piccola certezza mai sentita, una fede. Ortensietti mi guarda, steso placidamente sul bordo del suo divano bianco, adesso. Theo alza l’orecchio, gnaula qualcosa, mi guarda con i suoi occhi quasi ciechi e mi ricordo che ha tanti anni in quel corpo così piccolo. Oggi stamattina in questo momento qualcosa arriva, una piccola felicità.