
Martedì 25 marzo 2025. Giorno 16.
Cinque giorni al secondo ciclo di terapie.
“Come va stamattina?”. Me lo scrive l’oncologa su WhatsApp alle 6:54, dopo il mio crollo di ieri. Ieri, lunedì, m’è crollato tutto: i valori del sangue al prelievo di routine, le braccia, l’animo, i pensieri, e quel poco di forza che restava per salire le scale.
Stavo bene martedì scorso, il giorno dopo “il richiamino” dell’ottavo giorno. Sono andata perfino a pilates, la mattina presto, e ho fatto gli esercizi con il mattoncino prima di andare a lavoro sana, ben vestita e truccata. Mi sono fatta una foto appena arrivata in ufficio, per fissare il ricordo di un istante di salute piena, di energia. Tutto odorava di buona giornata, e com’era bello anche dirselo al bar, «buona giornata», subito dopo il caffè, «buona giornata a lei», in mezzo ai tin-tin di tazzine, voci, vapori di macchine e schiume di latte – la vita normale al suo avvio nel centro di una piccola città di provincia, il principiare delle abitudini diurne che ci rende tutti pari.
Stavo bene, forse, anche mercoledì. Non me lo ricordo più. Ma il giovedì, oh, il giovedì è giorno di tracollo, lo dice sempre Mara quando la terapia è di lunedì. Me ne accorgo anch’io, appena comincia: si spegne una luce.
Lo so cosa fa una chemio, non mi spavento.
Questa è nuova, non ci sono gli stessi farmaci della mia prima volta – le “rosse”, il taxolo, la capecitabina. Stavolta la mia dieta chemioterapica è a base di carboplatino e gemcitabina, coppia collaudata dai protocolli, ma poi sì, basta un ciclo ed è tutta la solita messinscena del paziente oncologico: la spossatezza, la sonnolenza, quel proverbiale colorito grigiastro che ci rende idonei ai servizi fotografici delle campagne anti-fumo sui pacchetti di sigarette (insieme al cranio nudo), qualche nausea nemmeno così rilevante, una vomitata di poco conto, e che sarà mai.
Pembrolizumab: il Caro Immunoterapico.
Però ecco, stavolta nella mia terapia c’è pure la combinazione della chemio con la variabile ignota: l’animatore della festa citotossica a ogni inizio ciclo è Pembrolizumab, “l’anticorpo monoclonale umanizzato” e commercializzato nel 2017 per la cura dei tumori chirurgicamente inoperabili, il Caro Immunoterapico, e con “caro” si vuol dire gravoso per il Servizio Sanitario Nazionale e quindi per i contribuenti tutti (mi dispiace, gravare).
Da lui, dal Caro Immunoterapico, si aspettano – loro si aspettano: i medici, la scienza, – risultati degni di nota, e cioè la mia guarigione, un’altra, la seconda, perlomeno una guarigione tecnica, certo da monitorare con il serratissimo follow-up: ecografie, mammografie, risonanze, TAC, PET, vediamo. Io, quando offro una vena, mi aspetto soprattutto gli effetti collaterali per i quali ho firmato il consenso informato: gli effetti molto comuni, i comuni, i rari, i molto rari.
ECOG: tutti i gradi dell’astenia.
“Astenia”, scrive l’oncologa nelle sue lettere indirizzate al mio medico curante dopo le visite di controllo. Le lettere della terapia sono una sorta di diario in cui viene registrata ogni tappa del percorso, data per data: i trattamenti e le mie risposte ai trattamenti, i farmaci prescritti “in caso di” [nausea, vomito, diarrea, stipsi, febbre, prurito, rash cutaneo, neutropenia, difficoltà respiratoria, tosse, epigastralgia, …].
“ECOG: 1 per astenia; tossicità Ge grado 1”, c’è scritto nella lettera dello scorso 17 marzo, giorno del richiamino che ha concluso il primo ciclo. Imparo, studio, chiedo, leggo quello che trovo e apprendo che ECOG (Eastern Cooperative Oncology Group) è una scala dello stato di prestazione e serve a misurare l’impatto della malattia e dei trattamenti oncologici sulle capacità di vita quotidiana del paziente. Mi era sfuggita questa nozione, alla mia prima volta, forse ero più distratta; adesso sono alla mia seconda – pure un paziente avanza di livello nell’apprendimento, nell’esperienza, nel gioco.
“Grado 1 per astenia”, dunque, una settimana fa.
A quale grado sarò arrivata in questi ultimi quattro, cinque giorni?
La scala ECOG va da 0 a 5, dove 0 è “completamente attivo, in grado di continuare tutte le prestazioni pre-malattia senza restrizioni” e 5 corrisponde a “morto”. Ecco dunque cos’era, durante le chemioterapie di due anni fa, quel grado 3 della mia mucosite alla gola: “Grado 3: sintomatico, > 50% a letto, ma non relegato (capace solo di cura di sé limitata, limitato al letto o alla sedia 50% o più delle ore di veglia)”.
La mucosite alla gola, almeno finora, non è il mio guaio stavolta. Astenia, si chiama nel linguaggio medico (dal greco ἀσθένεια, asthèneia, “mancanza di forza”), ma io vado alla ricerca di altre parole, ne annoto una lista disordinata: affaticamento, sfinitezza, esaurimento, debolezza, fiacca, prostrazione, fiacchezza, languore, spossatezza, abbattimento, sfinimento, sfiancamento, snervamento infiacchimento, indebolimento. Debilitazione, estenuazione.
Tra tutte mi piace “sfinitezza” perché contiene la fine, ma poi trovo il toscano “cascàggine”, che pure rende giustizia a questo mio cascare a letto, tutto un accasciarmi in un sonno chimico, come fossi stabilmente stordita da sedativi ipnotici.
Pane e cascàggine.
Sabato mattina vado a lavoro e subito dopo a un pranzo fuori con la famiglia. C’è mio nipote Gio, c’è mia cognata Viv, c’è quel povero cristo di Mio Fratello Fiduciario, stiamo allegri, papà ha fatto gli anni questa settimana, gli offrono un vino cotto invecchiato novant’anni. Mangiamo cose buone in un agriturismo sulle colline di Tortoreto che mi piace tanto, si chiama Terra di Ea e coltivano l’orto biologico, fanno il formaggio, il vino, l’olio, il pane con i grani antichi e il lievito madre. Io ho appetito, mangio tutto tranne la carne, ma specialmente mangio il loro pane. Assumo lieviti in dosi elevate, so che dopo starò male, ma questo pane, questo pane da accompagnare con la misticanza dell’orto… Il vino no, durante la chemioterapia non mi appassiona, ne bevo un sorso e la bocca contraffatta dai metalli mi storce il sapore.
Nel pomeriggio vado a domire alle quattro, perdo coscienza e mi sveglio alle dieci di sera, mi alzo per mangiare una banana (per il potassio, dice), torno a letto e mi riaddormento subito, fino alle sei del mattino dopo. Ho mal di stomaco, ed è il pane.
La domenica vorrei occuparmi della casa, spolverarla, fare qualche lavatrice – mi servono vestiti puliti per andare a lavorare. Ho bisogno di chiamare mia madre e chiedere aiuto anche per cambiare le lenzuola, perché pesano, mi pesano gli strati di tessuto sui muscoli delle braccia.
Il corpo è uno scafandro da trascinare, io palombara nell’abisso del mio torpore, la mente una stanzetta annebbiata, un sonno innaturale mi possiede – è giorno, è notte, confondo le ore, vedo appannato e perdo il senso del tempo.
Scotto, brucio, ma non ho febbre, sarà il Pembrolizumab che mi arde dentro, o forse la gemcitabina, o il carboplatino. «Carbo e pembro», risponde l’oncologa alla mia domanda su WhatsApp. Li immagino, questi due imperturbabili compari di missione, Carbo & Pembro, in marcia tra le mie cellule, a sparare sulla folla con un lanciafiamme nel tentativo di uccidere il Granchio che si camuffa e si mischia agli innocenti. Si muore a caso, anche lì, senza colpe né meriti.
Il mio fine settimana di cascàggine è andato via così. Non un libro, non una passeggiata, un film, una mostra, una pagina scritta, un caffè con gli amici. Non un nutrimento che sia benefico per il mio sentire, il mio pensare, il mio esserci oltre la materia organica.
Ieri mattina, lunedì, finalmente casco tutta.
Vado a fare il prelievo di routine, dunque a digiuno, e sto male. Vado in banca a chiudere un conto, e sto male. Torno a casa, e casco. Finalmente piango, era ora. Piango per me, per l’esperienza corporea della malattia, per il penoso tran tran delle terapie e la noia dei protocolli, per la sfinitezza, per il grumo di niente che sono io in questo momento. Mi piango addosso questi ultimi due anni interi, li riepilogo e li bestemmio: due cancri, una separazione, un trasloco, un nuovo lavoro insieme al primo che non bastava più a campare (campare, poi), perdio, facciamo che oggi io mi lagno, frigno, belo.
Poi, nel pomeriggio, occhi secchi e più leggera, prendo un caffè bello forte e vado in ufficio. Mi faccio accompagnare perché ho paura di un colpo di sonno alla guida. Verso sera, comincio a stare meglio. Lo sento: si sono riaccese le luci, come dopo un cortocircuito elettrico.
“Come va stamattina?”, mi scrive l’oncologa su WhatsApp alle 6:54. Sembra un po’ meglio, le dico, grazie. Aspettiamo il prelievo di venerdì, dice lei. Va bene. Aspetto.
Pembrolizumab, di nuovo lunedì.
Lunedì 31 marzo, se il prelievo di questo venerdì andrà bene, inizia un nuovo ciclo 1-8-21. Adesso che comincio a stare meglio, dunque, mi ritoccano Carbo & Pembro, e pure Gem, tutta la trilogia, e insieme il santissimo corredo degli anti-qualcosa.
Questo fine settimana, l’ultimo di questo marzo di resistenza, voglio andare a mangiare il pesce, al cinema, al mare, e voglio andare da Tedi e da Jysk a comprare stronzate che non mi servono, soprattutto voglio conigli di stoffa e fiori di primavera e uova da colorare per fare tutta una Pasqua mia in casa.
[Immagine in copertina: pin.it/29tjefgEL]